lunedì 31 maggio 2010

Una recensione del libro

Barbara è una giovane e bella donna nata nel 1976.

Quando la si incontra e si parla con lei lo si fa come lo si farebbe con chiunque altra persona o donna della sua età…

Invece Barbara è riuscita a scrivere un libro di poesie e di storia personale tanto profondo e devastante da sconvolgere tutti i parametri legati all’età e alla esperienza poetica che si acquisisce, normalmente, con gli anni e la pratica della scrittura.

Nel panorama, vasto e abbastanza uniforme, della poesia moderna italiana, Son stufadiza, perciò, si pone come vero esperimento di poesia intimistica e rivelata dove l’autrice non solo compone liriche per la semplice lettura ma scrive versi per confessarsi e ammettere avvenimenti, fatti e personaggi della sua vita che sembravano solo averla sfiorata prima dell’intera stesura del libro.

Son stufadiza smette così di presentarsi come un libro di poesie e diventa un diario di vita dove l’uso e l’utilizzo della lingua dialettale è la chiave per interpretare gli stati di animo dei personaggi e dei protagonisti ma insieme la soluzione per capire quanto l’autrice compia questo percorso insieme a tutti i lettori.

Barbara scrive le sue “confessioni” senza remore, senza filtri, senza inibizioni di nessuna sorta: poesia intimistica allo stato puro, come non se ne leggeva così da metà del secolo scorso.

E’ un mondo a parte quello descritto nel suo libro da Barbara Grubissa, animato e solcato da sirene e fantasmi e altre simili creature ugualmente eteree e sfuggevoli eppure in questo mondo si instaura con prepotenza e sopraffazione il dolore. Non solo quello portato dalla malattia descritta nell’opera ma insieme quello del trattamento medico forzato, delle cliniche, delle atmosfere opprimenti e dai non protagonisti del libro che seminano ancora più instabilità, precarietà, sofferenza, incostanza.

A cosa serve la lingua dialettale in tutto questo? A suggellare il patto invisibile tra l’autrice e il lettore: “ti parlo come parlerei a me stessa”.

Il filo conduttore dell’opera resta il Trattamento Sanitario Obbligatorio che l’autrice quasi personifica e impersona; attorno e in cerchio a lui (esso) si svolgono e si dipanano le vite dei personaggi del libro. Vite sospese e inafferrabili. Dove paragonarsi e identificarsi con sirene e ombre risulta più facile che restare armati e fortificati nella lotta.

L’epilogo, allora, non può essere che tragico e salvifico insieme.

Nessuno sa dirlo meglio che la stessa autrice : “La malattia è gommapiuma imbombita che gocciola ovunque”. La speranza e l’espiazione sono la poesia e la scrittura.


Antonia del Sambro - Aemme Servizi Editoriali

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