sabato 19 giugno 2010

COMMENTO DI STEFANO MAGNI

Stefano Magni è docente universitario presso il dipartimento di italianistica dell’Université de Provence Aix-Marseille.


Ho conosciuto Barbara. Alle volte mi ha parlato della sua situazione familiare. Ma mai come ora mi ha fatto capire tanto della sua esperienza. Leggendo le sue poesie mi sono reso conto della forza della sua poesia, di come la poesia sia uno strumento semiotico di un’efficacia straordinaria. Certo, perché nessun racconto fatto al bar, nessuna parola al telefono sono mai riusciti a dirmi quello che l’arte di Barbara mi ha detto con la poesia. Lo so che al centro del libro c’è la malattia mentale, ma io questa cosa la sapevo. Barbara mi aveva parlato di sua madre, per cui non vorrei, ora, fare un discorso politically correct con la mia opinione sul TSO (ho frequentato certi ambienti, saprei lanciare i miei dardi). No, da una cosa sono restato colpito, dalla poesia di Barbara. La ricchezza e la potenza delle parole, la dolcezza delle immagini. Ma com’è bello quel rincorrersi di lingua e dialetto. Barbara usa naturalmente lo strumento che le pare più opportuno, al momento più opportuno. Perché “imborezada” tocca altre corde rispetto a “euforica”, perché alle volte la preziosità dell’italiano – con le sue figure retoriche e stilistiche, e le sue reminiscenze letterarie – è più appropriata: “Caro diario affaticato e smarrito, superbo e geniale, stolto e sapiente ieri ho conosciuto la gelosia e la libertà.” La lingua è il suo uso. E Barbara lo asseconda naturalmente, riproponendo il suo quadro di vita con la sola scelta dell’idioma. Con questa scelta doppia, bipolare, che è anche doppiata dal binomio prosa-poesia, Barbara va incontro alla psicosi bipolare della madre:

“mia mama la ga la psicosi bipolare da una vita no la pol
starghe drio a nisun. La xe invalida con su scrito che la se devi riguardar”
Per mi la baba no gaveva mai sentì quela parola o solo su un manual
psicosi bipolare in bisiaco no so dir.

Ecco perché me la fa capire in poesia, questa psicosi bipolare, meglio che al bar. E comunque non la vedo più da anni, Barbara, ma fa lo stesso. È solo per essere precisi. E poi Barbara finge di essere semplice, quando gioca col dialetto, come quando dice “in bisiaco no so dir”. Eppure poche parole in bisiaco ci fanno capire meglio di qualsiasi definizione cosa sia la psicosi bipolare. Magari non a livello medico, ma cosa sia per una persona e per coloro che le stanno vicino, quello sì. E quindi, anzi, mi ravvedo, soprattutto a livello medico. Anche per questo i simboli stessi della poesia sono bipolari, come la sirena, cara immagine d’infanzia, ma che è anche quella che “ne smona col suo canto”. È perché Barbara cerca ogni modo per avvicinarsi alla madre con le sue scelte stilistico referenziali bipolari che riusciamo a capire tutto così bene. E poi, comunque, com’è bella la lettura del libro. Ma come scivola bene nelle orecchie e come resta nella mente il dialogo tra la madre e Barbara, quando parlano della sirena Farina, come si conoscono bene fatti e persone. E adesso basta, che parlo troppo, ed è meglio leggersi il libro.

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