martedì 1 giugno 2010

Recensione di Anna Zennaro

Ha uno sguardo acuto e sfuggente, Barbara Grubissa.
Ha la sfuggevolezza tipica di chi non vuol dare sfoggio della propria arte, ma di essa si ciba per nutrire se stesso.
Un'arte, quella della scrittura, che per l'autrice di "Son stufadiza" è stata un'arte salvifica, come piu' volte si legge nel libro. Una scrittura che le ha regalato intima pace, che ha messo in accordo le stonature della vita che il convivere con una persona malata di psicosi bipolare, necessariamente comporta.

E nei momenti di malattia, Barbara Grubissa aveva bisogno di mandare cuore e mente in vacanza, in vacanza dal male.
Aveva bisogno di un'isola nella quale approdare, per far distendere i pensieri al sole affinchè si asciugassero delle lacrime. E, una volta asciutti, si tramutassero in versi, in diario, in fiaba.

Spesso la poesia è impalpabile, incomprensibile. Le parole scaturiscono in versi nascendo da uno stato intimo e si rivolgono sempre ad altro, ad altri, a cose ed eventi che noi non conosciamo e che quindi non ci appartengono.

La poesia della Grubissa invece, pur appartenendo ad una realtà specifica, quella di chi convive con un malato di psicosi bipolare, è una poesia che si fa capire, è un urlo di dolore che non si puo’ far finta di non sentire. E’ la poesia del coraggio, quella di Barbara Grubissa, una poesia che si appiglia alla vita, che respira speranza.

E’, soprattutto, la poesia di chi sa di avere un’alternativa.

“Son stufadiza” ci insegna la valenza della libertà. La libertà di poter raccontare le cose per quel che sono e che sono state. Senza paura, senza vergogna, senza sconti.
Il suicidio di una mamma non puo’ essere raccontato a metà, bisogna partire dall’inizio, per arrivare alla fine.

E' stata una mamma intelligente e saggia, la mamma dell’autrice. Prima di morire le ha detto "racconta la mia storia", costringendo la figlia ad affrontare il suo dolore ed il suo talento per la scrittura e per la poesia, a superare l’uno tramite l’altro, cosicché malattia e cura diventassero un tuttuno, diventassero un libro, diventassero “Son stufadiza”.

Risolvono il libro, risolvono una vita e segnano quella di chi resta, i versi finali.
“Ciao picia, co’ moro buta via la scorza", a dimostrazione che nell'ottica delle cose, nell'ottica della vita, quella materiale, le gesta spesso hanno un senso difficile da comprendere o da decifrare. E probabilmente non ci sarà concesso di capire il “vero senso” ancora per tanto, tanto tempo.
Nel frattempo, però, ci è stato fatto dono di un piccolo capolavoro, un libro da avere in biblioteca e da sfogliare per dare un senso ai propri eventi, quando un senso gli eventi sembra non ne abbiano.

Un libro da tenere sempre nel cuore. Come l’amore di una mamma.


Anna Zennaro – Giornalista, Trieste

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